lunedì 16 giugno 2008

Pillole di antifascismo.


Una ragazza decide, discutibilmente (superficialmente, per me), di inserire una croce celtica in ricordo di un militante di destra ammazzato. Qual è il punto? Davvero il punto è antifascismo contro anticomunismo? Il punto non è la condivisibilità di una parola, di un messaggio, di un’idea, di una proposta, ma la sua cittadinanza. Il punto non è davvero punire per un simbolo, come nei Paesi teocratici si punisce il vignettista di Allah e come si è messa al rogo la parola di Giordano Bruno? Il punto è dire se quella "falce e martello" ha rappresentato morte tanto quanto la svastica o la croce celtica, inserita lì, diciamo, un po' frettolosamente? Il punto è, per me, la libertà. Attenzione: non la libertà di usare violenza, ma di esprimere una parola, di teorizzare un concetto di completamente incomprensibile, di diametralmente opposto al mio, violento, che bandisce il suo avversario ma che non è bandito dal suo opposto, il liberale, il nonviolento. Per questo sono sempre stato contro i reati di opinione, per questo ritengo che la violenza, intesa già come sola soppressione della parola altrui, “tollerata” “fino a” e, varcato il limite, in grado di giustificare anche lo “sparo a vista”, è sempre condannabile, anche quando si circonda dell’alone rivoluzionario. Perché alla lunga ogni fucile è nero.

Dalla prefazione del libro "Undergronud: a pugno chiuso", Marco Pannella (1973).


Come possiamo, allora, recuperare proprio in politica, nella vita di ogni giorno nella città, il concetto di "male", di "demonio", di "perversione"? Quel che voi chiamate "fascista", si chiama "obiettore di coscienza", "divorzista", "abortista", "corruttore radicale", "depravato", per altri.
Sono contro ogni bomba, ogni esercito, ogni fucile, ogni ragione di rafforzamento, anche solo contingente, dello Stato di qualsiasi tipo, contro ogni sacrificio, morte o assassinio, soprattutto se "rivoluzionario". Credo alla parola che si ascolta e che si dice, ai racconti che ci si fa in cucina, a letto, per le strade, al lavoro, quando si vuole essere onesti ed essere davvero capiti, più che ai saggi o alle invettive, ai testi più o meno sacri e alle ideologie. Credo sopra a ogni cosa al dialogo, e non solo a quello "spirituale": alle carezze, agli amplessi, alla conoscenza come a fatti non necessariamente d'evasione o individualistici - e tanto più "privati" mi appaiono, tanto più pubblici e politici, quali sono, m'ingegno che siano riconosciuti.

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